Fonte: RS SERVIRE (S55,3‑4-5)

RESISTENZA, GUERRA DI POPOLO 

Dedicata ai giovani, da essi e per essi realizzata, la Rivista  "RS Servire" presenta al­cune pagine di questo nu­mero per analizzare aspetti della Resistenza italiana che, iniziatasi l'8 settembre 1943, trovò il suo vitto­rioso coronamento il 25 aprile del 1945. Molti dei nostri lettori, allora era­no adolescenti, alcuni giovani: di quei tragici mesi gravidi di ansie, di morti, di bombardamenti, di deportazioni, resta loro un ricordo vago, per lo più legato ad una impressione generica e fantasiosa. Appunto per essi abbiamo raccolto questi scritti: perchè sia dato loro di meditare e scoprire i moventi remoti che spinsero giovani della loro età a prendere una decisione che fu    frattura con un recente passato, rinun­cia ed una soluzione più facile di compromesso, gioco della propria vita fino all'olocausto. Da troppe parti, per mezzo di una stampa legata a complessi più o meno qualificati ed il cui scopo è quello di creare una inquietudine ed un disprezzo per tutto quello che forma il dipanarsi della vita politica attuale, si è fatto e si sta facendo il processo alla Resistenza italiana non costa fatica ripescare l'episodio orripilante il fattaccio, l'assassinio ingiusto, la sopraffazione. Tutto questo fa parte - zavorra e conseguenza - di ogni azione bellica, alla quale convergono forze di diversa preparazione e sensibilità morale. Ma l'episodio è generalizzato o dogmatizzato: ne nasce uno stillicidio di insinuazioni e di critiche che vorrebbero lentamente rovesciare una situazione e far apparire vittime quelli che di un tragico epilogo furono causa ed attori. La resistenza italiana rimane una pagina ormai storicamente acquisita della nostra Patria ed apertura verso atteggiamenti nuovi del nostro patrimonio politico e nazionale. Il volerlo dimenticare è ingiusto, il volerlo rinnegare è illogico per l'errore di chi pensa di poter far risalire a ritroso il grande fiume degli avvenimenti. Nel gennaio del 1925 il fascismo concludeva l'azione demolitrice delle libertà civiche, iniziatasi con la marcia su Roma. L'incerto e pavido comportamento della Monarchia aveva favorito tale situazione. Eliminati i partiti, la libertà di stampa, l'opposizione, rafforzata una Milizia di parte, la via alla dittatura era aperta. Questa dovette - come ogni dittatura - ricorrere a due metodi di governo: la creazione del Mito e la esaltazione delle masse. Non popolo, ma masse: informi e pianificate, il cui compito era di riempire le piazze, tra grida e applausi, per sottolineare le frasi salienti del Capo, o di divertirsi nelle forme offerte dal regime, onde non ci fosse tempo per criticare. L'azione politica era riservata a pochi, i migliori: il popolo non doveva far politica, doveva "credere". In chi? Nell'Uomo: in un solo uomo fatto espressione di un sentimento collettivo ("sei tutti noi") e simbolo vivo di una rivoluzione. A questa mitologia collettiva tutti si sono piegati: scuola, esercito, magi­stratura. Tutto in Italia era fascista: tutti dovevano, per poter accedere ad un posto o avere una licenza di attività economica, essere iscritti al Partito. Gli stessi ufficiali dell'esercito dovevano essere tesserati. Si diseducò a parlare e ad esprimersi. Si disabituò alla responsabilità: tutto doveva assolutamente "andar bene" e nessuno si sentiva o poteva -a che pro del resto? - manifestare errori commessi. "Il Duce non sbaglia mai". Nacque l'equivoco: tra un regime che pensava di controllare ogni espres­sione della Nazione, ed il popolo che si lasciava guidare passivamente. Chi ne traeva vantaggi erano piccoli o grandi gruppi di capitalisti, privilegiati per titoli politici o per raccomandazioni o per arrivismi. Equivoco strano di una massa disabituata a volere, cui si attribuivano granitiche volontà di conquista, di un popolo desideroso di pace e invece lanciato su ideali di impero ed obbligato ad un perenne desiderio di combat­timento. E venne la guerra. Perché l'Italia vi entrò. Nella colluvie di Diari usciti dal '45 in avanti tutti si mettono al riparo: i Capi di Stato Maggiore, gli ambasciatori, i politici. Tutti allora erano contrari! Nella "Storia della resistenza italiana", il Battaglia, di ideologia marxista, dà - ad esempio - al fenomeno, una discutibile interpretazione economica. "Se si voleva mantenere il ritmo vertiginoso dei profitti capitalistici, era inevitabile indirizzare la produzione verso nuovi mercati, aprirsi la strada in Europa, intervenire finché si era in tempo, costi quel che costi. Mussolini, dun­que, non fece che interpretare fedelmente la volontà del capitale finanziario e fu anche in questa occasione il più coerente e il più premuroso dei suoi servitori. E venne la guerra ... Il 25 luglio 1943 - sotto la pressione di una catastrofe sempre più gi­gantesca - il Gran Consiglio cerca una via di scampo ma quello che doveva essere un semplice "cambio della guardia" del Capo del Governo, oggetto ormai di troppo rancore da parte di un popolo stanco, vinto, impoverito, di­venne un colpo di Stato. E quel popolo - beneficato - buttò dalle finestre delle case littorie i mobili, bruciò effigi e gridò alla libertà. Quel popolo creduto e chiamato fascista, calpestò le insegne di un regime subìto per viltà o paura o interesse. In quel giorno i partiti si ricostituirono pur sotto un vigilato controllo. Recenti discussioni apparse sulla stampa italiana per quello che riguarda l'arre­sto di Mussolini hanno rimesso in luce i gravi errori commessi in quei giorni dai responsabili della vita nazionale a cominciare dalla Monarchia. Tra i primi, la non coincidenza tra caduta del fascismo ed armistizio, con la conseguenza di far scendere in Italia armatissime divisioni tedesche, e il non aver realizzato un trapasso totale che chiudesse un'epoca, con l'affidare il Governo a generali estranei troppo alla vita politica, inadatti a conquistare la fiducia di coloro coi quali si dovevano iniziare colloqui per la fine delle ostilità. "La guerra continua" e continuò fino all'8 settembre, con le angoscianti giornate di bombardamenti sulle città, quando l'annuncio dell'armistizio fu dato all'ultimo momento, sotto la minaccia alleata di anticipare i tempi. L'armistizio fece il gioco dei tedeschi. Il nostro esercito, ancora forte di mezzi e di uomini, crollò nel giro di pochi giorni. Per colpa di chi? La storia sarà un giorno severo giudice di responsabilità assunte con leggerezza, di irresponsabilità di capi, di mancati piani e coordi­namenti. Non si possono leggere senza stupita meraviglia le documentate pa­gine di R. Cadorna nel volume "la Riscossa" (ed. Rizzoli) e si capirà il perché di una fine. Mentre i primi carri impiombati portavano i nostri giovani verso la prigionia, alcuni, prendevano la via della montagna. Iniziava la Resistenza. Essa non aveva né grandi programmi, né grandi affermazioni. Resistere e combattere il tedesco. Scrive giustamente l'Agnoletti: "La Resistenza italiana agisce in situazione diversa da quella di tutti gli altri Stati d'Europa. Dappertutto il motivo dominante è stato la volontà di resistere contro l'invasore straniero, fisicamente distinto e riconosciuto ufficialmente come nemico fin dall'inizio. Così in Russia, in Polonia, in Francia, nel Belgio, in Olanda, in Norvegia, in Danimarca, in Jugoslavia e anche in Cecoslovacchia. In Italia non c'è stato un nemico entrato a forza nel nostro Paese: l'unico nemico, l'unico esercito entrato a forza sono gli Alleati occidentali. Perciò è mancato quel fatto elementare, l'odio per lo straniero invasore che nasce dallo shock profondo causato dall'irruzione di truppe straniere nel territorio della Patria. I motivi patriottici, che pur ci sono e profondi, devono essere asso­ciati a un'idea della patria meno elementare, meno fisica di quel che è acca­duto fuori d'Italia, un'idea della Patria che vede in essa non solo la comune origine, ma un tipo di società contrapposto a un altro tipo di società". (Prefazione alle "Lettere dei condannati a morte", Einaudi). Non tocca a noi - né del resto ci sarebbe possibile - trascrivere i mille episodi di valore, il coraggio, il sacrificio di migliaia di persone. Il dolore e la speranza ha accomunato bambini, donne, sacerdoti, militari, anarchici, politici, artisti, cattolici, atei. La Resistenza si nascondeva nelle cantine delle città o nelle soffitte, ai margini delle grandi strade, sui monti, o nelle forre. Stracciati, vilipesi, male armati, odiati, questi "banditi" facevano paura - strana, impalpabile, con­tinua paura - ad uno dei più potenti eserciti del mondo. Braccati sempre, non protetti da nessun patto internazionale, questi "par­tigiani" sapevano che essere presi voleva dire "morte" tra le più atroci ed indescrivibili sofferenze. Rastrellati, scomparivano: ma dopo poco la zona epurata si ripopolava di armati. Dietro e con loro l'aiuto di tutto un popolo che sosteneva, confortava, nascondeva, aiutava. Era esercito con quadri incerti, senza rifornimenti, senza paga, senza quartiere, senza divisa. Esercito fatto di uomini di tutte le età: adatto al colpo di mano e non alla battaglia, alla sorpresa e non alla stra­tegia; guidato per lo più da sottufficiali. Era pur esso popolo. Tra i problemi ancor oggi discussi in sede storica sul Risorgimento ita­liano, uno ve n'è che ci può interessare più da vicino. Esso riguarda la coesistenza delle due forze operanti dagli inizi dei moti insurrezionali all'Unità d'Italia: volontarismo da una parte e milizie regie dal­l'altra. L'obbiettivo mazziniano puntava a far si che fossero gli italiani ad acqui­stare coscienza di nazione, di unità e da soli compissero la propria liberazione. Le iniziative sorte sotto la sua ispirazione per lo più fallirono, talora tra­gicamente, ma restava una esigenza profonda di far prendere coscienza a un popolo di divenire responsabile dei suo domani. È guerra di popolo quella delle cinque giornate milanesi, o delle resi­stenze eroiche di Venezia, e di Roma nel '48‑'49, così come le imprese garibal­dine del '62 e del '67. C'è invece una guerra "regia" che la Casa Savoia prepara e guida: il cui compito è di allargare il dominio della Monarchia al di là dei confini piemontesi. Queste due forze talora si sovrappongono e si completano come scrive Rota in "Problemi del volontarismo" (1928). "Le due forze, democrazia e monarchia, solo apparentemente ostili, di­stanziate nell'azione, anzi, nell'impossibilità logica di militare insieme, sono due momenti necessari del processo ricostruttivo; la milizia popolare deve arre­starsi, quasi marcare il passo, allorché entra in azione la milizia regia, ma que­sta percorre la via che quella le ha vigorosamente aperto; e fa le viste di vo­lerne soffocare il programma, sostanziato di sovversivismo, cioè per procacciare al proprio intervento la sanzione diplomatica di Europa, mentre in realtà crea alla democrazia, che tiene il suo quartiere provvisorio fuori d'Italia, l'ambiente di stato necessario alla sua libera e completa esplicazione nazionale". L'unità d'Italia si compie attraverso un laborioso travaglio: tuttavia la co­scienza civica del popolo italiano - cioè una corresponsabilità ai destini della Nazione - non ha profonde radici se il popolo stesso si adattò - più tardi - ad una penosa situazione di cui ancor oggi sentiamo le conseguenze ed alla ventennale dittatura. Per liberarsene dovette combattere e soffrire e morire. La resistenza ha riaffermato la seconda parte dei dilemma risorgimentale - guerra regia o guerra per bande - e fu guerra di popolo. Qui sta il suo valore al di là dell'episodio e del contingente; qui sta il suo significato perenne. È il popolo che riconquista il diritto a determinare la propria storia, a divenirne attore. Fu qui, ci pare, l'errore della Monarchia: non aver afferrato il significato della liberazione, ed esserne rimasta fuori: ci sono nella storia delle incertezze fatali per le dinastie come per gli individui. Il fatto nuovo nato dalla resistenza è la decisiva posizione del popolo nella vita nazionale. Una evoluzione è in corso: iniziatasi con la rivoluzione francese, demo­litrice dei privilegi di casta, ora sta superando i privilegi del censo. La storia attuale non si può più fare senza tener conto dell'apporto del popolo delle officine o dei campi, di coloro che lavorano per vivere, anche se il loro contributo è di ricerca scientifica o di pensiero. Il problema ritorna - per noi - su argomenti più volte affrontati in que­ste pagine. L'opera più urgente è quella di educare e di elevare questo popolo riconoscendo le sue vaste e profonde risorse, ed indirizzando le sue giuste aspirazioni. Per questo lo Scoutismo - non a caso abbattuto da un regime totalitario e non a caso risorto con la vittoria di una liberazione - è tra le forme più moderne capaci di una vasta opera sociale. A un popolo che cerca, talvolta con inquieto spirito, delle mete noi offriamo i valori perenni - base di ogni vivere civile - quelli che la Pro­messa riassume: Dio, Patria, Prossimo e che la Legge effettua e potenzia. ANDREA ANTONIOTTI